L’arte di meditare.

L’arte di meditare.

Chandra Livia Candiani in Il silenzio è cosa viva (Einaudi, 2018) scrive:

Ho letto una storia Sufi:

“Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva uscire. L’asino continuò a ragliare sonoramente per ore, mentre il proprietario pensava al da farsi. Infine, il contadino prese una decisione crudele: concluse che l’asino era oramai molto vecchio e che non serviva più a nulla, che il pozzo era oramai secco e che in qualche modo bisognava chiuderlo.
Non valeva pertanto la pena di sforzarsi per tirare fuori l’animale dal pozzo. Al contrario, chiamò i suoi vicini perché lo aiutassero a seppellire vivo l’asino.

Ognuno di loro prese un badile e cominciò a buttare palate di terra dentro al pozzo. L’asino non tardò a rendersi conto di quello che stavano facendo e pianse disperatamente. Poi, con sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase zitto.

Il contadino allora si decise a guardare verso il fondo del pozzo e rimase sorpreso da quello che vide. A ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. In questo modo, in poco tempo tempo, l’asino riuscì ad arrivare fino all’imboccatura del pozzo, oltrepassare il bordo e uscire trottando”.

Meditare non è cercare vie d’uscita, ma piuttosto vie d’entrata. È questo che fa l’asino. Entra nella sua situazione, sente la disperazione, grida, poi accoglie quello che sta succedendo, non resta sommerso, non è vittima della situazione, si scrolla di dosso la terra e quella stessa terra diventa la sua risorsa.

Il mondo è pieno di persone che danno ricette per disfarsi di qualsiasi cosa ci opprima, per non sentire o entrare in un’illusione anestetizzante. La pratica della consapevolezza, invece, insegna a stare, a entrare in intimità con quello che ci accade, e il paradosso è che questa intimità è impersonale. Non restiamo invischiati nell’autonarrazione, l’intimità della meditazione è contatto con il tessuto dell’esperienza, con la percezione diretta e non mediata dai concetti di quanto accade, del suo impatto su di noi. E questa giusta vicinanza ci permette di arrivare non più a una reazione ma a una risposta. Non ci confina in una sorridente passività, ma anzi, l’accoglienza di quel che ci accade porta con sé l’energia di una giusta azione che ci stacca da noi quando il tempo è maturo, e va nel mondo.

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